Dovrebbero essere, secondo l’ultima pianta organica voluta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S), circa 3000. Nei fatti sono poco più di 2600, con una scopertura del 14 percento. Stiamo parlando dei magistrati italiani che ricoprono il ruolo di pubblico ministero nelle varie Procure del Paese, ad iniziare da quella presso la Corte di Cassazione. I pm, dall’altro giorno, sono tornati nuovamente al centro dell’attenzione del dibattito politico a seguito dell’intervento programmatico in Parlamento del Guardasigilli Carlo Nordio che ha affermato, senza mezzi termini, di volerli “separare” dai colleghi che invece svolgono la funzione giudicante.

La maggior parte dei pm presta servizio negli uffici giudiziari da Roma in giù. Solo alla Procura di Napoli, fra procuratore, aggiunti, sostituti e procuratori europei, sono più di centodieci. A Palermo, invece, sono settanta, quanti quelli in servizio presso tutte le Procure della Toscana. Come per i colleghi giudici, va però ricordato, la loro distribuzione negli uffici giudiziari non tiene minimamente conto del contesto socio economico del Paese. In Sicilia, ad esempio, con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, ci sono ben quattro Corti d’appello. In Lombardia, dove gli abitanti residenti sono più del doppio, le Corti d’appello sono solo due. Fra questi 2600 pm ci sono poi quelli in servizio presso la Procura generale della Cassazione, circa un centinaio. Alcuni di loro vengono impiegati per l’attività disciplinare nei confronti dei colleghi o come, utilizzando le parole pronunciate in un Plenum dal consigliere laico Stefano Cavanna, «serbatoio per incarichi fuori ruolo» presso ministeri, autorità indipendenti, e quant’altro.

“L’anomalia italiana”, seguendo il ragionamento di Nordio, è dovuta al fatto che pur avendo il nostro Paese sposato dal 1989 un codice penale con rito accusatorio, quindi con la “parità' fra accusa e difesa, il pm è rimasto un magistrato. Il pm, sottolinea Nordio, “sceglie” i procedimenti potendo trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno. «Un tale sistema conferisce alle iniziative - e talvolta alle ambizioni - individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, una egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione», ha allora puntualizzato Nordio che quando era in servizio ha fatto proprio il pm e quindi conosce bene vizi e virtù dei suoi colleghi.

A difesa dello status quo, il richiamo alla comune cultura della giurisdizione che dovrebbe portare il pm ad effettuare accertamenti anche a favore dei suoi indagati. L’esperienza insegna che ciò accade molto raramente, non essendo previste sanzioni, disciplinari o penali, per il pm che non svolge tale compito. «Come capo della polizia giudiziaria il pm ha infatti una reale autorità esecutiva. Ma come magistrato gode delle garanzie dei giudici e quindi svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia accompagnano e limitano l’esercizio di un potere», ha chiosato il Guardasigilli.

In pratica, oggi, il pm svolge un ruolo “diverso” da quello del giudice. Sempre Nordio ha infatti ricordato cosa accadeva prima dell’entrata in vigore del codice Vassalli: «Prima era la polizia giudiziaria che svolgeva le indagini con un margine di autonomia e consegnava gli esiti al pm. Il pm non era il coordinatore delle indagini bensì colui che a esse garantiva un filtro di giuridicità per trasmettere al giudice quel che meritava di essere sottoposto a giudizio». Con il pm capo della polizia giudiziaria lo scenario è cambiato radicalmente. Perché, allora, questa ritrosia da parte dei pm a prendere atto che il quadro è mutato? Le ipotesi sono diverse. Un aspetto, indubbiamente, è il “potere”. I pm hanno molta visibilità grazie alle loro indagini. A differenza dei giudici, i loro nomi sono spesso conosciuti dal grande pubblico.

Visibilità che è anche data dagli incarichi ricoperti nelle correnti e nella stessa Associazione nazionale magistrati. Scorrendo i nomi dei suoi presidenti negli ultimi decenni si scopre che nel 90 percento dei casi, vedasi Luca Palamara, si è trattato di pubblici ministeri, pur essendo essi un terzo dei colleghi giudici. La riforma che vuole Nordio dovrebbe prevedere due diversi organi di autogoverno, uno per i pm ed uno per i giudici. Questo non significherebbe sottoporre i pm al potere esecutivo bensì creare un loro ruolo autonomo, con un proprio Csm, e percorsi di accesso distinti con concorsi separati dai giudici. Nessun “condizionamento” da parte della politica ma sempre e comunque “soggezione” solo alla legge. Per realizzare tutto ciò serve una modifica della Costituzione. Operazione che necessita di tempo. Ma, come dice sempre Nordio, è un «vasto programma».

Il momento storico, comunque, è maturo ed anche i numeri in Parlamento ci sarebbero per dare finalmente un corretto assetto al sistema giudiziario italiano che non ha adesso equali, con l’unicità delle carriere, in nessuna altra parte d’Europa dove è stato adottato un codice di rito di tipo accusatorio.